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giovedì 12 dicembre 2013

Universi paralleli




 

Ricevo e pubblico questo post, che ritengo interessante e su cui torneremo per qualche commento successivamente


Parallelismi al contrario col dipendente pubblico medio  (ispirati dal e in risposta al post "Mors tua, vita mea")

Caro Dipendente Riluttante,
te lo spiego io il mondo del pubblico impiego e lo faccio alla luce di 13 anni in esso (soprav)vissuti e dopo aver cambiato 3 enti diversi di dimensioni diverse, ogni volta mossa dalla speranza che il problema fosse insito nell’ente che lasciavo, che fosse cioè la presenza di quei particolari amministratori incapaci di governare o di quei particolari dipendenti incapaci di lavorare.

Invece no, la disillusione ultima è arrivata dopo un solo giorno trascorso nell’attuale comune di appartenenza (anche se l’idea di “appartenervi” mi fa sempre orrore), quando in un attimo ho riconosciuto le medesime dinamiche che si svolgevano nei precedenti enti da cui ogni volta fuggivo rifiutando l’idea che potesse esistere un “sistema” in tal modo strutturato, che non significa “tollerato” bada bene, ma proprio costruito ad-hoc per permettere che ognuno vivacchi in esso tranquillamente, certo di essersi garantito un posto fisso con il minimo sforzo per 40 e più anni della propria vita.

Infatti nella pubblica amministrazione, al contrario che in azienda (dalle tue descrizioni), lo scopo ultimo della vita lavorativa da dipendente pubblico medio (ahimè la maggioranza) non è quello di “fare carriera”, di sgomitare, anche tramite i “mezzucci” che tu descrivi, per scalare (scusa l’accostamento con l’alpinismo) una qualsivoglia ascesa, o almeno per apparire in mille faccende affaccendato e conquistarsi la nomea di “indispensabile”… No, per il dipendente pubblico medio tutto il desiderabile è già raggiunto il giorno in cui vince il concorso: già, perché l’unica aspirazione del dipendente pubblico medio è quella di impossessarsi del diritto di appoggiare il proprio sedere su quella sedia a lui attribuita con la garanzia che, qualunque cosa faccia o NON FACCIA, nessuno al mondo potrà levargliela da sotto le chiappe. STOP. L’idea di meritarsela (insieme allo stipendio) ogni giorno con impegno, non lo sfiora nemmeno.

Un altro “parallelismo al contrario” con il mondo dell’azienda che, leggendoti, ho riscontrato, è che nella pubblica amministrazione se sei uno che “si agita”, che si fa vedere troppo impegnato alla scrivania o troppo veloce e scattante lungo i corridoi (magari perché, babbeo, fai parte di quel 30% che “traina il carro” e che il mazzo se lo fa per davvero, grazie al quale la baracca, nel bene o nel male, va avanti), se sei uno di questi, dicevo, vieni visto male, vieni considerato un disturbatore, uno che con la propria solerzia mette in risalto l’inettitudine degli altri che invece vorrebbero continuare a starsene tranquilli, invisibili, crogiolati nella loro bambagia fatta delle solite rassicuranti abitudini: frequenti e interminabili pause alla macchinetta del caffè, interessanti resoconti circa l’attività intestinale dei propri figli, piacevoli disquisizioni sul tronista di turno, sull’ospite della D’Urso o sull’ultima puntata di 100 vetrine… per non parlare delle ore su facebook che, quando la lingua si secca, risulta una valida alternativa per trascorrere il tempo.

E a questo punto ti chiederai: ma i loro responsabili, in tutto questo? Ed è qui il bello: sono proprio loro a propinare e promuovere, vuoi con l’esempio vuoi con la condiscendenza, questi comportamenti ben noti a tutti perché un subordinato troppo efficace è fastidioso anche per loro, perché l’inettitudine da tenere occultata è anche la loro. E vuoi mettere che fatica sarebbe per loro impegnarsi a trovare modi efficaci per far lavorare (meglio se bene e in modo efficiente) i propri sottoposti? dovrebbero dimostrare di essere bravi soprintendenti, ma questo nella pubblica amministrazione non conta, anzi, non è proprio contemplato, anzi, non è proprio voluto. Il responsabile di un settore è solo un posto ricoperto e una firma sui documenti che contano.

Il cerchio si chiude quando i suddetti indulgenti capi, per mantenere un simile (malsano ma tanto comodo) equilibrio, permettono ai descritti dipendenti di godere della propria conquistata inutilità concedendo loro privilegi che il famoso 30% può solo sognarsi: 3/4 settimane di ferie consecutive, malattie frequenti senza essere soggetti ai previsti controlli medici, periodi di aspettativa senza bisogno di dare troppe spiegazioni, part-time e orari personalizzati, solitamente disciplinati sulla base di precise condizioni, ma in questi casi elargiti in deroga a tali condizioni.

E quindi eccolo l’ultimo “parallelismo al contrario” (ma “ultimo” solo perché solo oggi ho scoperto il tuo blog): gli orari sono personalizzati solo per alcune categorie (corrispondenti al 70% degli impiegati…), non per garantire una maggiore felicità dei dipendenti che si traduca in maggiore produttività, bensì per assicurarsi che quei dipendenti non facciano "casino" sollevando questioni spinose o semplicemente creando un qualsivoglia tipo di “disturbo” all’equilibrio descritto. Quando io, parte di quel 30% di babbei, ho chiesto un part time temporaneo (con sole 6 ore in meno alla settimana) per un mio periodo di difficoltà, la risposta del mio responsabile è stata: “non è possibile, non saprei come giustificare la riduzione di qualche ora ad una persona che funziona”. Ed eccola l’ultima illuminazione: nella pubblica amministrazione è molto meglio (per tutti) non funzionare!

PS: se un collega dipendente pubblico leggerà il mio post, a seconda della sua reazione alle mie parole, dimostrerà di appartenere alla categoria dei babbei o a quella del dipendente pubblico medio.
 
                                                                                 PubbliDipendente Dissidente 
 
                                                                                                                

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