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giovedì 19 giugno 2014

La ricerca della felicità

 
 
Dedico un post al seguente scambio di commenti, che mi sembra valga la pena evidenziare perché fa scaturire un dibattito interessante.
 
Anonimo ha lasciato un commento su L'azienda contro la vita di relazione
 
"Per di più questa considerazione, che ai miei occhi costituiva l’ammissione del fallimento di una vita, soprattutto detta da una donna di mezza età", ma quanti stereotipi pur di portare acqua al mulino delle proprie convinzioni... e se a questa donna andasse benissimo avere solo contatti lavorativi per i motivi più disparati della sua esistenza? Ma che ne sai tu della vita delle persone? Se la vita in azienda non ti piace, cambiala. Inutile sparare giudizi sugli altri e sul sistema, puoi cambiare la tua di vita, non stare a giudicare gli altri. Think out of the box.
 
Caro Anonimo, può darsi che sia vero quello che dici, può darsi che quella donna fosse felice così, ma sostenere che sia uno stereotipo pensare che probabilmente una persona non è felice se vive una vita solitaria mi sembra davvero esagerato. Va bene una certa dose di relativismo, ma l'essere umano normalmente per essere felice ha bisogno di una ricca vita relazionale, e questo a causa di come siamo fatti. Poi naturalmente molte persone possono scegliere strade diverse per tanti motivi, anche se io dubito che queste strade portino a una vera felicità: l'unica parte interessante del film "Into the wild" era proprio la consapevolezza che la "felicità è tale solo se è condivisa".
Ma il punto del post era che in questi casi la vita solitaria non è una libera scelta priva di condizionamenti, ma il risultato di forzature da parte di una organizzazione, che proprio perché fa delle forzature che vanno in contrasto con la realizzazione della felicità della stragrande maggioranza delle persone ha in se qualcosa di deviato.

giovedì 12 giugno 2014

La competitività



Qualche tempo fa ho visto un bel dibattito a Uno Mattina, fra il Professor Bagnai e un professore aziendalista della Luiss.
A un certo punto quest'ultimo tira fuori le solite belle metafore sportive per inneggiare alla competizione e alla necessità di “competitività”. “L’asticella”, quel bel linguaggio vibrante della gara sportiva, quel "vinca il migliore" per incoraggiare la sana competizione e far emergere i più bravi, come la vedono gli economisti alla Zingales.
Solo che, diversamente da quanto avviene alle Olimpiadi, nella vita o in azienda chi non vince la gara non si limita a perdere per poi provare a vincere la volta successiva, ma viene ridotto in miseria,  umiliato o messo ai margini.
E a me questa idea di società come perpetua competizione tra tutti, anche con le migliori regole, ipotesi già di per sé ottimistica e utopica, ricorda tanto una versione appena ritoccata della legge della giungla.