Sono un imprenditore da quasi cinquant’anni.
E’ difficile per me pronunciare queste parole, tanto quanto sarebbe difficile per qualcuno ammettere di essere un alcolista o un avvocato: non ho mai stimato questa professione. E’ infatti proprio il mondo degli affari il maggior responsabile della distruzione della natura, dell’annientamento di molte culture indigene, di un’ingiusta distribuzione delle risorse e dell’inquinamento del pianeta con le emissioni delle sue fabbriche.
Tuttavia è vero che il mondo degli affari produce cibo, cura le malattie, regola la popolazione, da lavoro alla gente e, in generale, arricchisce le nostre vite. E può ottenere tutto questi risultati positivi e ricavarne anche un profitto senza però per questo perdere la sua anima, ed è proprio questo l’argomento che voglio affrontare quì.
Come molti coloro che hanno vissuto la loro giovinezza nell’America degli anni Sessanta, il classico sogno di fare più quattrini dei propri genitori o di cominciare un’attività, svilupparla più in fretta possibile, renderla famosa e ritirarsi sui campi da golf non mi ha mai attirato. I miei valori sono il prodotto di una vita a contatto con la natura e della passione per quelli che alcuni chiamano "sport estremi"; mia moglie Malinda e io, insieme ad altri testardi colleghi di Patagonia, abbiamo fatto tesoro delle lezioni imparate praticando questi sport e le abbiamo applicate per mandare avanti un’impresa.
La mia azienda, Patagonia Inc., è un esperimento: esiste per sfidare i giudizi convenzionali e per presentare un nuovo tipo di azienda responsabile che dimostri che il modello corrente di capitalismo, che presuppone una crescita illimitata, non è sostenibile e deve essere sostituito.
Ho sempre evitato di pensare a me stesso come a un imprenditore: io ero un alpinista, un surfista, un kayakista e un fabbro che si divertiva a fabbricare attrezzi di buona qualità e vestiti pratici come li volevamo noi e i nostri amici. Tuttavia alla fine degli anni 70, io e mia moglie, ci trovavamo ad avere un’azienda con un sacco di vincoli, con impiegati che a loro volta avevano famiglia e che dipendevano dal nostro avere o meno successo.
Così dopo aver riflettuto sulle nostre responsabilità e sui nostri problemi finanziari, un giorno mi colpì la consapevolezza che io ero un imprenditore e lo sarei stato probabilmente per molto tempo. Divenne perciò chiaro che per sopravvivere in quel gioco, dovevamo imparare a giocare seriamente, ma sapevo però che non mi sarebbe mai piaciuto giocare secondo le normali regole del mondo degli affari: volevo essere il più possibile diverso da quei pallidi cadaveri in giacca e cravatta che vedevo nelle pubblicità. Se dovevo essere un uomo d’affari lo sarei stato a modo mio e avevo bisogno di essere sostenuto da valide motivazioni..
Una cosa assolutamente non volevo che cambiasse, anche se eravamo costretti a fare le cose seriamente: il lavoro doveva essere un divertimento per tutti, tutti i giorni.
Tutti dovevano venire al lavoro a piedi e fare le scale due alla volta, avevamo bisogno di essere circondati da amici e tutti dovevamo poter indossare quello che li pareva e anche stare scalzi; tutti avevano bisogno di orari flessibili per poter andare a fare surf quando c’erano le onde giuste o a sciare quando c’era la neve, o poter stare a casa ad accudire un bambino con l’influenza.
Dovevamo rendere meno netta la divisione tra lavoro, divertimento e famiglia.
Su insistenza di Malinda istituimmo anche un asilo nido in sede: la vicinanza dei bambini che giocavano in cortile e pranzavano coi genitori aiutava a mantenere l’atmosfera generale molto più familiare che corporativa e inoltre sappiamo che i genitori sono più produttivi se non sono preoccupati per i loro figli: pensiamo che le scelte che molte persone che lavorano fanno e che contrappongono la carriera alla famiglia, di fatto non dovrebbero esistere.
Perciò da allora la nostra politica è sempre stata quella di lasciare ai dipendenti la possibilità di gestire in modo flessibile il loro orario purché il lavoro venisse fatto e non si creassero disagi per gli altri. Un surfista serio non programma di andare a surfare Giovedì pomeriggio alle due: va a surfare quando ci sono le onde, la corrente e il vento adatti. E uno sciatore va a sciare sulla neve fresca quando c’è la neve fresca!
Ciò ha portato alla nostra politica di flessibilità "Let my people go surfing" e i dipendenti possono approfittarne per prendere buone onde o andare ad arrampicare un pomeriggio o anche per arrivare a casa in tempo per accogliere i figli quando scendono dallo scuolabus.
Oltre a ciò, mi resi conto che la nostra azienda riproduceva in scala ridotta ciò che stava succedendo in tutto il mondo e per questo avevamo bisogno di linee guida che ci dessero l’ispirazione necessaria per trovare la giusta strada da seguire: così ci riunimmo e stilammo insieme queste linee guida che chiamammo "filosofie", una per ognuno dei nostri maggiori settori e funzioni.
Tali filosofie sono le seguenti e non hanno un ordine di importanza.
- Tutte le decisioni della società devono essere prese tenendo presente il contesto di crisi ambientale e perciò i nostri sforzi devono essere volti a non causare danni e dove possibile le nostre azioni devono contribuire a ridurre il problema.
- Si deve prestare la massima attenzione alla qualità del prodotto, definita da criteri di resistenza, impiego minimo di risorse naturali, multifunzionalità, velocità di deperimento. L’esigenza di rispondere alle mode del momento è espressamente considerata non pertinente ai valori dell’azienda.
- Cerchiamo di trarre profitto dalla nostra attività evitando tuttavia che questo diventi l’obiettivo primario. In ogni caso la crescita e l’espansione non sono valori fondamentali di questa azienda.
- Per contribuire ad arginare ogni conseguenza negativa per l’ambiente che possa derivare dalla nostra attività, ci imponiamo una tassa annuale dell’1 % sulle vendite o del 10 % sui profitti, a seconda di quale sia il maggiore.
- A tutti i livelli operativi l’azienda incoraggia prese di posizione attive che rappresentino i nostri valori. Questo allo scopo di promuovere attività che influenzino la più vasta comunità imprenditoriale, affinché anche essa modifichi e corregga i propri valori e il proprio comportamento.
Il sogno americano è quello di iniziare un’attività, farla crescere per venderla e ritirarsi. Per questo investimenti di capitale a lungo termine per la formazione del personale, per l’accudimento dei bambini, per il controllo delle emissioni inquinanti e le agevolazioni per alleggerire il lavoro sono tutti fattori negativi per questo obiettivo a breve termine.
Quando però si esce dall’ottica che un’azienda è un prodotto da vendere tutte le future decisioni ne sono influenzate e i proprietari o i responsabili si rendono conto che, dato che la società vivrà più a lungo di loro, essi hanno responsabilità anche al di là della linea del traguardo.
Ormai si è creato un certo vuoto con il declino di così tante istituzioni che erano solite guidare le nostre vite, come i circoli sociali, le religioni, le squadre sportive, il vicinato e le famiglie nucleari, tutte cose che avevano un effetto aggregante e che davano il senso di appartenenza e la consapevolezza di lavorare per uno scopo comune. Tuttavia un’azienda può aiutare a colmare questo vuoto a patto che mostri ai suoi dipendenti e ai suoi clienti che si rende conto delle proprie responsabilità etiche e può contribuire al bene comune.
Patagonia non sarà mai del tutto responsabile da punto di vista sociale e non fabbricherà mai un prodotto del tutto sostenibile e assolutamente non dannoso.
Ma si impegnerà sempre a cercare di farlo.